I Big Data si confermano fenomeno inarrestabile del ventunesimo secolo. La consapevolezza della portata di tale fenomeno, però, sembra limitata solo alle grandi aziende, e in particolare ai colossi americani. Google, Facebook e Amazon, tra tutti, diventano così padroni incontrastati del “nuovo petrolio”, sfruttando a loro vantaggio gran parte delle informazioni disponibili sul web.
Sommario
Quante informazioni si producono in un minuto
In un anno sulla rete transitano circa 1,5 zettabyte di dati. Si tratta di una mole di dati immensa e davvero difficile da immaginare: basti pensare che può essere paragonata al contenuto di 250 miliardi di DVD. A questa informazione si aggiunga la consapevolezza che il 90% dei dati disponibili è stato creato negli ultimi 5 anni.
Emerge come i Big Data siano un fenomeno dalla crescita apparentemente inarrestabile: si stima che entro il 2020 saranno generati 1,7 MB di dati per ogni persona sulla terra. Ogni secondo.
Domo presenta uno spaccato dei dati prodotti ogni minuto. La maggior parte di essi deriva dai social network come Tinder, Linkedin, Youtube, Twitter, o da piattaforme di intrattenimento come Spotify e Netflix. Non mancano ovviamente nell’infografica diffusa da Domo i colossi americani Amazon e Google.
Alcuni esempi di questa impressionante mole di dati prodotta ogni minuto sono:
- 97.222 ore di video riprodotte su Netflix
- 1.111 pacchi consegnati da Amazon
- quasi 4 milioni di ricerche effettuate su Google
- quasi 50 mila foto pubblicate su Instagram
I dati prodotti non sono più qualcosa di immateriale, da immaginare come un’entità astratta e priva di valore. Diventano invece un perfetto tracciato dell’utente in più momenti della sua vita: quando cerca lavoro (Linkedin), quando si gode il tempo libero ascoltando musica (Spotify) o guardando un film (Netflix), quando acquista qualcosa (Amazon) e perfino quando flirta con qualcuno (Tinder). Ogni momento della nostra vita sembra ormai produrre dati.
I grandi player: Google, Facebook e Amazon
La consapevolezza dell’importanza per un’azienda di avere controllo su questi dati sembra nelle mani di pochi. In particolare, è evidente il monopolio americano dei dati, soprattutto guardando alle grandi aziende come Facebook, Amazon e Google.
Prendendo ad esempio proprio il famoso social network, Mark Zuckerberg sembra aver maturato già anni fa l’importanza di controllare il maggior numero di dati sui propri utenti, acquistando Whatsapp (65 miliardi di messaggi inviati ogni giorno) e Instagram (oltre 100 milioni di foto condivise in un giorno). Le informazioni messe a disposizione degli utenti sono poi utilizzate per vari scopi, tra cui marketing personalizzato sul nostro comportamento.
Non da meno è Google: non ci limitiamo in questo caso all’utilizzo del motore di ricerca o alle mail inviate, ricevute e cancellate, ma addirittura alla cronologia delle posizioni di Google Maps, all’attività fisica svolta di Google Fit o le attività vocali legate a Google Home. Una sorta di Grande Fratello a cui siamo noi stessi a rivolgerci per condividere le nostre informazioni.
Anche Amazon dispone di una significativa mole di dati: basti pensare alla possibilità di ricostruire abitudini di consumo e di navigazione del colosso di Seattle, nonché conoscere la disponibilità economica dell’utente. Informazioni che vengono poi utilizzate, ad esempio, come base per il raccomandation engine, ossia il metodo con il quale Amazon riempie la propria homepage (e non solo) con prodotti che potrebbero essere di nostro interesse.
Il costante investimento nella tecnologia da parte di queste aziende nei dati fa sì che ad oggi si assista inermi ad un vero e proprio monopolio: secondo statcounter.com, il 92% delle ricerche sul web viene effettuato tramite Google, 7 interazioni su 10 avvengono con Facebook e quasi 1 acquisto online su 2 vede coinvolto Amazon. Ai crescenti investimenti, si affianca la capacità di queste aziende di offrire servizi che ad oggi paiono insostituibili.
La situazione in Italia
Sicuramente un fattore di successo da parte di queste aziende è rappresentato da:
- Investimenti nelle infrastrutture, come i data center dove i grandi colossi investono miliardi ogni anno;
- Capitale umano in grado di affrontare il costante progresso tecnologico.
In Italia, il mercato dei Big Data è effettivamente in espansione, avendo registrato un +28% rispetto all’anno precedente. Secondo una ricerca degli Osservatori Digital Innovation di fine 2018, solo un azienda su tre ha cominciato ad investire in tecniche di Machine Learning e Deep Learning. 1 azienda su 2 presenta ancora un modello lavorativo tradizionale per i dati.
Si tratta di porre un pericoloso limite alla propria azienda, rinunciando a quello che potrebbe rappresentare uno dei fattori di successo (se non di sopravvivenza) in un mondo che ormai produce dati in ogni sua interazione.
Lo studio riporta come le grandi imprese italiane siano dotate nella totalità di un sistema di analisi descrittivo, ma solo alcune di esse stanno muovendo i primi passi verso analisi predittive e prescrittive. Situazione ben più grave riguarda le PMI, dove 4 su 10 dichiarano di utilizzare analisi descrittive e solo il 7% ha avviato progetti di Big Data Analytics.
Immaginiamo ora se i grandi colossi avessero rinunciato a sfruttare i propri dati per attività avanzate. Nel 2018 Google avrebbe fatturato quasi 116 miliardi in meno su 138, questo perché l’85% del fatturato Google nel 2018 deriva proprio da attività di marketing mirato reso possibile proprio dallo sfruttamento propri dati in modo che va ben oltre la semplice analisi descrittiva.
Questo è il valore di analisi avanzate per Google: l’85% del fatturato nel 2018.
Fonti:
- DOMO, Data Never Sleeps 6.0
- www.statcounter.com
- Osservatori Digital Innovation, “Il mercato dei Big Data Analytics in Italia vale 1,4 Miliardi Di Euro, +26%”
- Francesco Bertolino, “Il cartello americano dei dati” Milano Finanza, 1 giugno 2019
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